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Fiori di carta

Crestomazia della poesia italiana dedicata ad Eftimios adolescente

Fiori di carta - Anonimo, Ar Caste' d'Aiuij

Per l’antologia della poesia italiana dedicata ad Eftimios oggi ho scelto:

AR CASTE’ D’AIUIJ

Ar caste’ d’Aiuij
Na bela fija u j’è;
Da là passa ïn giuvo
U r’ha faja dmandèe.

Tant ben che si vurrivo
Tice dui si sun malà.
Ra bela all’ustaria,
U zuvo all’uspidal.

Ra bela all’eua fresca,
U zuvo all’eua panà;
Ra bela dir bun sippe,
U zuvo ir pan grattà.

Ra bela an sra strapuncia,
Giuvinin an sra paja:
Ra bela morta all’arba,
Giuvinin all’alvèe du sū.

Ra bela an s’l’iss dra gesia,
U zuvo an s’u spazià;
An fund ai pei dra bela
U jé nassì ir pumin granà.

L’ha ir foje tantu grande
Ch’u fa umbra a trei sità;
Ina l’è Viruna,
L’altra r’è ir Casà.

L’altra r’è Valenza.
O che trei bele sittà!
An fund ai pei dra bela
U j’e nassì ir pumin granà.

*

Al castello d’Oviglio / ci sta una bella ragazza; / di là passa un giovane, / la ha fatta domandare.
Tanto bene che si volevano, / tutti due si sono malati. / La bella all’osteria, / il giovane all’ospedale.
La bella all’acqua fresca, / il giovane all’acqua panata; / la bella delle buone zuppe, / il giovane del pan grattato.
La bella sul materasso, / il giovinetto sulla paglia: la bella morta all’alba, / il giovinetto al levar del sole.
La bella sepolta sull’uscio della chiesa, / il giovane sul piazzale; / ai piedi della bella / è nato un melogranino.
Ha le foglie tanto grandi / che fa ombra a tre città; / una è Verona, / l’altra è Casale.
L’altra è Valenza. / O che tre belle città! / Ai piedi della bella / è nato un melogranino.

*

Ho scelto questa poesia popolare, accolta da Pier Paolo Pasolini nel suo ‘Canzoniere italiano – antologia della poesia popolare’ (Guanda 1955, Garzanti 1972), in primo luogo perché il poeta corsaro ed il ragazzo dagli occhi lucenti si sono entrambi fermati all’adolescenza, Eftimios andando a morire, Pasolini andando a vivere amando gli adolescenti.

Secondo poi per il modo in cui Pasolini descrive criticamente questo testo struggente. Serio e allegro nello stesso tempo, Pasolini - come Mozart, come Eftimios - : “Vi si osservi, intanto, il contesto metrico, di eccezionale regolarità, rara nei componimenti popolari epico-lirici, quasi sempre deliziosamente zoppicanti, e che qui dà un senso, appunto raro, di assolutezza: quartine di settenari piani vagamente rimati e tronchi rimati a colpi di martello.

L’inizio è tipicamente narrativo, ma assai poetico nel suo essenzialissimo enunciato. Sicché in piena luce resta subito il motivo della malattia, che – il lettore osservi bene – non è qui dovuta al rifiuto della famiglia di dare il sposa la ‘bela’ al ‘zuvo’, ma all’eccessivo amore, quasi per un’impotenza di fronte all’amore con la sua stupenda e inesprimibile fatalità: ‘Tant ben che si vurrivo...”. Comincia così subito il moto iterativo, con intonazione pietistica su fondo sensuale, che lamenta l’agonia della bella coccolandone - con una galanteria che copre pensieri vagamente impudichi – la figura un po’ viziata, e descrivendo quella del ragazzo, invece, quasi con voluttà – siscusi il crudo termine psicologico – autolesionista di infierire sulla sua morte, ma con un umore un po’ cialtrone, ironico e cameratesco. Il processo iterativo evita la meccanicità dell’assurdo per la concretezza un po’ siglata, è vero, ma divertente, degli oggetti nominati, con contrasto di volgarità (ai danni del giovanotto martire) e di delicatezza (a gloria dell’appetitosa verginella): e dura abbastanza per distrarre dall’idea di una loro eventuale morte. Che giunge dunque inattesa, con ‘risvolto’ degno di un espertissimo artista, portata dalla stessa allure, umoristica e enunciativa, delle altre iterazioni contrastanti: ma, e qui l’abilità non è solo abilità, ma è intuizione poetica, quella morte giunge compressa in una luminosità intensissima: ‘La bella morta all’alba, / il giovinetto sul levar del sole’, che è luce su luce, gremirsi di luce: acme che nell’impasto morte-luce rinviene una figura assolutamente libera e inesistente in qualsiasi realtà.

Poi, avvenuti morte e seppellimento, la stratificazione, sul corpo lirico della canzone, del corpo lirico a sé, quasi parassitario, del motivo della piante che cresce sulla tomba: motivo antichissimo, sparso in tutta l’Europa, e che qui ritorna quasi per inerzia, ma con quali germi di misteriosa fantasia inglobati nei piani sintagmi della cantilena.

Pura anche qui la lezione monferrina ci pare più alta delle altre piemontesi, che finiscono con il nuovo ‘scatto’ di convenzionalità fantastica delle ‘tre città’, quasi araldico scherzo finale. Qui nella monferrina, ci sono, è vero, le tre città ombreggiate dal melograno: ma non a concludere; anzi, sono disposte con asimmetria nel giro strofico: Verona e Casale, (la città piemontese che dovrebbe eccellere) nei due ultimi settenari della penultima quartina, Valenza nel primo dell’ultima: che dunque si conclude con una patetica ripresa, in forma di mascherato o appena accennato ritornello, affiorante appena ma balenante, in una accorata, distesa apertura finale di canto, piena della più pura allegria popolare.” (pagine 48-9 della edizione Garzanti).

 

(sito-rivista, 2 novembre 2009)

Anonimo, Ar Caste' d'Aiuij

Fiori di carta - Belli, La Morte co la coda

I fiori che durano più a lungo tra i fiori della terra sono i fiori-di-parole, i fiori-poesie. Ecco oggi fiorire nel cielo di Eftimios

La Morte co la coda

Qua nun ze n’esce: o semo giacubbini (1),
o credemo a la lègge der Signore.
Si ce credemo, o minenti o paini (2),
la morte è un passo che ve gela er core.

Se curre a le commedie, a li festini,
se va pe l’ostarie, se fa l’amore,
se trafica, s’impozzeno quadrino (3),
se fa d’ogn’erba un fascio… eppoi se more!

E doppo? doppo viengheno li guai.
Doppo c’è l’antra vita, un antro monno,
che dura sempre e nun finisce mai!

È un penziere que mai, che te squinterna (4)!
Eppuro, o bene o male, o a galla o a fonno,
sta cana (5) eternità dev’èsse eterna!

(1) atei
(2) popolani o signori
(3) s’accumulano soldi
(4) ti sgomenta
(5) crudele, nemica, barbara

Ho scelto tra i duemila sonetti di Giuseppe Giacchino Belli questo 'La Morte co la coda' per la ragione generale che – per usare le parole sante di un amico di nome Emerico Giachery (Belli e Roma. Tra Carnevale e Quaresima, Edizioni Studium,  Roma, 2007) qui come sempre il Belli "apre, anzi spalanca le porte al ‘linguaggio della piazza’ ". Il linguaggio del Belli, la materia prima dei suoi sonetti, la ‘farina del suo sacco’ non è tutta sua, insomma, ma anche del popolo romano, della ‘plebe’. Belli poeta è della razza di Bartók musicista. Chissà quando Venises ci farà sentire, e capire, una musica di Bartók. Speriamo presto, e preghiamo Apollo che sia l’Allegro Barbaro.

Secondo poi c’è una ragione particolare: una certa visione tragica della vita, e della morte come liberazione, che condivido col poeta romanesco.

 

(sito-rivista, 2 gennaio 2008)

Belli, La Morte co la coda

Fiori di carta - Benedetti, Amor de tarde

Per questa antologia di fiori-di-carta, questo giardino della poesia italiana dedicato ad Eftimios - oggi ho scelto la poesia di Mario Benedetti:

Amor de tarde

Es una lástima que no estés conmigo
cuando miro el reloj y son las cuatro
y acabo la planilla y pienso diez minutos
y estiro las piernas como todas las tardes
y hago así con los hombros para aflojar la espalda
y me doblo los dedos y les saco mentiras.

Es una lástima que no estés conmigo
cuando miro el reloj y son las cinco
y soy una manija que calcula intereses
o dos manos que saltan sobre cuarenta teclas
o un oído que escucha como ladra el teléfono
o un tipo que hace números y les saca verdades.

Es una lástima que no estés conmigo
cuando miro el reloj y son las seis.
Podrías acercarte de sorpresa
y decirme "¿Qué tal?" y quedaríamos
yo con la mancha roja de tus labios
tú con el tizne azul de mi carbónico.

Amore nel pomeriggio

È un peccato che tu non sia qui con me
quando guardo l’orologio e sono le quattro
e lascio il listino e penso dieci minuti
e stiro le gambe come tutti i pomeriggi
e faccio così con le spalle per rilassare la schiena
e mi torco le dita e tiro fuori bugie.

È un peccato che tu non sia con me
quando guardo l’orologio e sono le cinque
e sono una manopola che calcola interessi
o due mani che saltellano su quaranta tasti
o un orecchio che ascolta il latrare del telefono
o un tipo che fa numeri e tira fuori verità.

È un peccato che tu non sia qui con me
quando guardo l’orologio e sono le sei.
Potresti avvicinarti di sorpresa
e dirmi “Come va?” e rimarremmo
io con la macchia rossa delle tue labbra,
tu con la fuliggine azzurra della mia carta carbone.

(Traduzione di Fabio Benincasa)

Ho scelto questa poesia di un poeta uruguaiano figlio di italiani per ricordare che Eftimios era italiano e cipriota. I poeti e i messaggeri (Eftimios vuol dire messaggero di gioia) sono senza confini.

In secondo luogo per saldare un debito con questo poeta (morto il 17 maggio 2009 a ottantotto anni). Una delle novantanove ragioni che mi hanno spinto a scrivere poesie haiku è infatti la lettura di una recensione, una decina di anni fa, di un suo libro composto da cento poesie haiku. Il testo critico era mediocre, gli haiku citati conturbanti.

 

(sito-rivista, 2 giugno 2009)

 

*

 

Questo post ha ricevuto questi commenti:

 

Inviato: 2/6/2009 6:13

Autore: Pasquale Misuraca

In questo blog ho trovato stamattina alcune considerazioni su Mario Benedetti che condivido, e persino due haiku del tempo che fu:

“La varietà della sua opera (ha scritto anche testi di canzoni e saggi politici) potrebbe rendere difficoltoso ogni tentativo di classificazione. Tuttavia, in questa diversità di registri, palpita una segreta unità che dà coerenza a tutta la sua opera, uno stile personale che deriva dalla sua vocazione comunicante, vale a dire, secondo la definizione data dallo stesso Benedetti, l’interesse a stabilire un clima nel quale il lettore si senta parte di un dialogo con l’autore, sviluppato in un piano di mutua fiducia e di apprendimento reciproco. Benedetti diceva di non scrivere per i posteri, ma per i lettori contemporanei, nel tentativo di conquistarli letterariamente perché agiscano umanamente. (...)

L’impegno manifesto di raggiungere un vasto pubblico non si realizza attraverso concessioni alla banalità o al sentimentalismo superficiale. Nella sua relazione con il lettore, il poeta uruguaiano ha ben chiaro il suo ruolo di “provocatore”, che vuole aprire gli occhi al prossimo e non coprirli. Naturalmente una comunicazione di questo tipo si realizza attraverso un codice di facile comprensione per il destinatario, fatto di linguaggio accessibile, semplicità sintattica e stile vicino al registro colloquiale. Questa familiarità letteraria deriva dall’ossessione, che fu anche di Antonio Machado, di “parlar chiaro”. Lo scopo dichiarato è di creare una complicità con il lettore, far nascere in lui un vincolo affettivo con l’opera letteraria, affinché si operi in lui una trasformazione. (...)

Tra le forme poetiche che meglio si sono prestate agli intenti di Benedetti c’è sicuramente l’epigramma, che egli ha abbigliato da haiku in una fortunata raccolta (Rincón de haikus, Madrid: Visor, 1999; México: Alfaguara, 1999). Eccone alcuni:

El preso sueña
algo que siempre tiene
forma de llave.

Il prigioniero sogna
qualcosa che ha sempre
forma di chiave.

(...)

Eran los brazos
de la Venus de Milo
los que aplaudían.

Erano le braccia
della Venere di Milo
quelle che applaudivano.

 

*

 

Inviato: 2/6/2009 10:24

Grazie per la visita al mio blog, per i complimenti e per la citazione. Non conoscevo Fulminiesaette, che è stata una positiva sorpresa. Lo segnalo tra i preferiti di Popinga e tornerò a farvi visita. Ciao.
Popinga (Marco)

 

*

 

Inviato: 2/6/2009 21:16

Alla prima lettura questa poesia mi ha riportato alla memoria "Nostalgia del presente" di Borges. Rileggendola, però, ho avvertito il peso crescente dell'assenza della persona amata e sono rimasta con una sensazione di amarezza.

 

*

 

Inviato: 3/6/2009 21:13

Autore: ioJulia

Una poesia dell'attesa molto bella..
L'assaggio degli haiku fa desiderare di continuare nella scoperta..

Ho finalmente cambiato città. Nuovi stimoli e sicuramente molte foto 

A presto
Julia

Benedetti, Amor de tarde

Fiori di carta - Bertolucci, Per un bel giorno

Per questo prato di fiori-di-carta che vado componendo, oggi ho scelto - dopo le (a fianco delle) singole poesie di Giovanni Pascoli, Toti Scialoja, Guido Cavalcanti, Paolo Conte, Giuseppe Ungaretti, Giuseppe Gioacchino Belli, Dino Campana, Trilussa, Gianni Rodari, Aldo Palazzeschi - una poesia di Attilio Bertolucci:

Per un bel giorno

Un cielo così puro
un vento così leggero
non so più dove sono
dove ero.

O gaggìa nuda,
bruna violetta
che nel calore fugace
appassisci...

Giorno che te ne vai
e non sai nulla di me e della violetta
che tanto amo
e del ramo
nudo della gaggìa,

giorno, non andar via.


Perché l’ho scelta? Per la ragione generale che l’acacia - o gaggìa - ha vita breve. Anche la sua fioritura è breve. E in questa sua poesia Attilio Bertolucci non la fa lunga.

Secondo poi perché odora non di parole laureate, ma di piante colorate.

 

(sito-rivista, 2 giugno 2008)

 

Commenti ricevuti dal post nel sito-rivista:

 

*

 

Inviato: 2/6/2008 17:43

 

Da me!... Non quando m'avviai trepido
c'era una madre che nel mio zaino
ponesse due pani
per il solitario domani.

Per me non c'era bacio né lagrima,
né caro capo chino su l'omero
a lungo, né voce
pregante, né segno di croce.

Non c'eri! E niuno vide che lacero
fuggivo gli occhi prossimi, subito,
o madre, accorato
che niuno m'avesse guardato.

Da me, da solo, solo e famelico,
per l'erta mossi rompendo ai triboli
i piedi e la mano,
piangendo, sì, forse, ma piano:

piangendo quando copriva il turbine
con il suo pianto grande il mio piccolo,
e quando il mio lutto
spariva nell'ombra del Tutto.

Ascesi senza mano che valida
mi sorreggesse, né orme ch'abili
io nuovo seguissi
su l'orlo d'esanimi abissi.

Ascesi il monte senza lo strepito
delle compagne grida. Silenzio.
Né cupi sconforti
non voce, che voci di morti.

Da me, da solo, solo con l'anima,
con la piccozza d'acciar ceruleo,
su lento, su anelo,
su sempre; spezzandoti, o gelo!

E salgo ancora, da me, facendomi
da une la scala, tacito, assiduo;
nel gelo che spezzo,
scavandomi il fine ed il mezzo.

Salgo; e non salgo, no, per discendere,
per udir crosci di mani, simili
a ghiaia che frangano,
io, io, che sentii la valanga;

ma per restare là dov'è ottimo restar,
sul puro limpido culmine,
o uomini; in alto,
pur umile: è il monte ch'è alto;

ma per restare solo con l'aquile,
ma per morire dove me placido
immerso nell'alga
vermiglia ritrovi chi salga:

e a me lo guidi, con baglior subito,
la mia piccozza d'acciar ceruleo,
che, al suolo a me scorsa,
riflette le stelle dell'Orsa.

 

*

 

Inviato: 25/10/2010 17:02

 

Autore: Pasquale Misuraca

 

Una sconosciuta lettrice, o uno sconosciuto lettore, ha commentato a suo tempo questo post citando La piccozza di Giovanni Pascoli. Non ho capito bene perché, ma non dispero - altri capiranno e diranno.

Oggi, due anni e mezzo dopo, aggiungo su Attilio Bertolucci poeta una notazione di Pier Paolo Pasolini che vividamente illumina una terza irragionevole ragione della mia scelta: "...Bertolucci, che non aveva fatto, della tecnica e della lingua, un problema: l'unico suo interesse restando l'oggettività dell'esistere, di cui egli è riuscito ad esprimere - con una straziante leggerezza - l'inesprimibilità..." Descrizioni di descrizioni.

Esprimere con straziante leggerezza l'inesprimibilità. Eftimios.

Bertolucci, Per un bel giorno

Fiori di carta - Campana, Viaggio a Montevideo

I fiori che durano più a lungo sono i fiori-di-parole. Ecco ancora un fiore-poesia per Eftimios.

Viaggio a Montevideo

Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D'ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...


Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell'ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare: ...
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un'isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell'equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l'inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune...

Per l’antologia poetica italiana di tutti i tempi che vado componendo, ho scelto questa poesia di Dino Campana “poeta selvaggio” (come lo chiamava Pasolini) per la ragione generale che mostra come “la vita” (questo mondo) e “l’arte” (il mondo parallelo a questo) a volte felicemente s’incontrino, come felicemente si sono incontrate nel corso di tutta la breve esistenza di Eftimios.

Secondo poi c’è una ragione particolare: mostra – ‘Viaggio a Montevideo’ - come l’eco (di parole, di frasi, di rime, di città, di colori, di fanciulle, di deserti) non sia mai ritorno dell’identico - niente ritorna, niente ci può consolare – e che tutto produce un’eco – che non è ripetizione attenuata, ma variazione incantata. I poeti servono a ricordarci spietatamente e dolcemente questa triste e allegra verità.

 

(sito-rivista, 2 febbraio 2008)

Campana, Viaggio a Montevideo

Fiori di carta - Capossela, L'uomo vivo

Per questa antologia di fiori-di-carta che vuole raccogliere il meglio della poesia italiana - e dedicarlo ad Eftimios - oggi ho scelto il testo di una canzone di Vinicio Capossela:

L’uomo vivo

Ha lasciato il calvario e il sudario
Ha lasciato la croce e la pena
Si è levato il sonno di dosso e adesso per sempre per sempre è con noi

Se il Padre eterno l’aveva abbandonato
Ora i paesani se l’hanno accompagnato
Che grande festa poterselo abbracciare
Che grande festa portarselo a mangiare

Ha raggi sulla schiena irradia gio-gio-ia
Le dita tese indicano gio-gio-ia
Esplodono le mani per la gio-gio-ia
Si butta in braccio a tutti per la gio-gio-ia

E’ pazzo di gioia, è un uomo vivo
Si butta di lato, non sa dove andare
E’ pazzo di gioia ed è un uomo vivo
Di spalla in spalla di botta in botta le sbandate gli fanno la rotta

Alziamolo di peso gioventù, facciamolo saltar
Fino a che arrivi in cima, fino al ciel, fino a che veda il mar
Fino a che vita, che bellezza è la vita mai dovrebbe finir

Barcolla, traballa sul dorso della folla
Si butta, si leva, al cielo si solleva
Con le tre dita la via pare indicare
Nemmeno lui nemmeno lui sa dove andare
Barcolla, traballa al cielo si solleva
Con le tre dita tre vie pare indicare

Perché è pazzo di gioia, ed è l’uomo vivo
Si butta di lato, non sa dove andare
Di corsa a spasso va senza ritegno mai più mai più sul legno
Non crede ai suoi occhi, non crede alle orecchie
Nemmeno il tempo di resuscitare, subito l’hanno portato a mangiare

Ha raggi sulla schiena irradia gio-gio-ia
Si accalcano di sotto per la gio-gio-ia
Esplodono le mani per la gio-gio-ia
Lo coprono i garofani di gio-gio-ia
Gioia gioia gioia viva per lui
Gioia gioia gioia viva per lui
Gioia gioia gioia viva per lui
Di la, no, di qua, di la, di qua , no gioia gioia gioia

E’ pazzo di gioia, ed è un uomo vivo
Esplode la notte in un battimano
Per il Cristo di legno del Cristo col nero è tornato cristiano

Barcolla, traballa, sul dorso della folla

Fino a che arrivi in cima, fino al ciel, fino a che veda il mar
Fino a che vita, che bellezza è la vita mai dovrebbe finir
Gioia gioia gioia gioia gioia gioia

*

Perché l’ho scelta? Per la ragione generale che questo cantautore è riuscito almeno una volta (ma una volta basta), provando e riprovando, a creare una canzone che ha ammazzato non il tempo ma il Tempo.

Secondo poi perchè è bello rinascere tra i morti ma è ancora più bello rinascere tra i vivi, come sentono-comprendono-capiscono gli artisti, gli scienziati, i filosofi, i teologi e tutti i creatori – per questo superbamente lavorano.

 

(sito-rivista, 2 luglio 2008)

Capossela, L'uomo vivo

Fiori di carta - Cavalcanti, I’ vegno ‘l giorno a te

 

I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte
e trovoti pensar troppo vilmente:
molto mi dol della gentil tua mente
e d’assai tue vertù che ti son tolte.

Solevati spiacer persone molte;
tuttor fuggivi l’annoiosa gente;
di me parlavi sì coralemente (1),
che tutte le tue rime avie ricolte.

Or non ardisco, per la vil tua vita,
far mostramento che tu’ dir (2) mi piaccia,
né ‘n guisa vegno a te, che tu mi veggi.

Se ‘l presente sonetto spesso leggi,
lo spirito noioso che ti caccia
si partirà da l’anima invilita.

Guido Cavalcanti


(1) sì coralemente = con tale amichevolezza
(2) tu’ dir = la tua produzione poetica


Continuo a parlarvi, a parlarti di Eftimios, oltre la sua vita breve, pubblicando e commentando fiori intorno a lui, non fiori recisi, agonizzanti, e nemmeno fiori piantine, moriture, bensì fiori di carta, fiori di parole sempreverdi, fiori-poesie. Lo faccio con i fiori della poesia italiana di tutti i tempi. Un poeta, un fiore-poesia.

Continuo con I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte di Guido Cavalcanti, un sonetto. Perché pubblico e commento un sonetto? Perché è una poesia dalla chiara forma pre-ordinata. Lo faccio insomma in polemica aperta con la confusa forma post-ordinata dominante l’arte contemporanea.

Questo in generale. In particolare, nota, lettore, lettrice, che questo sonetto è un rimprovero, un richiamo, un’esortazione, un incitamento – franchi, chiari, diretti, amichevoli. Di Guido Cavalcanti a Dante Alighieri scombussolato e traviato dalla scomparsa di Beatrice. Che i rapporti amicali producano opere come questa rallegra tutti noi del blog-rivista, questa officina telematica fondata su rapporti amicali, appunto.

 

(sito-rivista, 18 novembre 2007)

Cavalcanti, I’ vegno ‘l giorno a te

Fiori di carta - Cesari, Ghjàcari

Ho scoperto Stefanu Cesari grazie a Stefania Mola. (Una 'corona d'alloro' rivelata da una 'ghirlanda di fiori'.) Ecco una poesia del poeta corso:

Ghjàcari (Custillazioni)

Socu appresu à a ghjacariccia
una muradda di petri si sfaci
quandì ghje ci pongu
a siconda mani
- da supra -
u ventu s’apri i so stradi
com’è u varmu sutt’à i sciappi, abbandunati

s’è torru à u riali, a socu, sò ghjà à longu i cani
unghja
inùtuli – è pulmona
sbiutà si
dui cartuccia
pà una custillazioni – una circulazioni astrali
par sminuiscia – sutt’ à i petri caduti

sarà un ghjèmitu
sarà un neci



Suivre la meute
une muraille sèche, défaite à la deuxième main posée
plus haut – constellations – voire
d’autres routes
pour le ver sous l’ecorce : tout ce liège abandonné

revenir au réel : je sais. ils sont déjà loin, les chiens

les ongles inutiles
les poumons
vider deux cartouches – pour une constellation –
pour circuler – ailleurs – pour se réduire
à rien
radicelles sous les pierres tombées

gémir là
ou faire croire

*

L'ho scelta prima di tutto perché questa è una antologia della poesia italiana - e ai miei occhi di ragazzo la Corsica e l'Italia stanno dentro la stessa inquadratura.

Secondo poi, il verso "il vento s'apre le sue strade" mi commuoverà sempre d'ora in poi, prediligendolo alla affermazione "lo spirito soffia dove vuole" - che mi ha sempre irritato.

 

(sito-rivista, 2 maggio 2009)

Cesari, Ghjàcari
mazzeri.jpg

Fiori di carta - Conte, Hesitation

Il fiore/poesia che oggi pianto tra il cielo e la terra di Eftimios è una canzone di Paolo Conte, nata nell’anno in cui Eftimios scompariva ai nostri occhi velati:

Hesitation

Io li sentivo parlare
dietro la porta del pomeriggio
chiusa a chiave
naturalmente dalla mia parte,
si capiva molto poco, quasi niente,
ma qualcosa si intuiva,
si indovinava una specie di salto
nei loro pensieri…

Hesitation,
con una gamba per volta,
hesitation in love…

Sotto la porta il tappeto
sembrava come elettrizzato,
le rose donate erano lì
in attesa di venire capite,
era una scena d’amore
e di esitazione stupenda,
io avrei voluto dare una mano
non so bene se a lei o lui…

La ragione generale per cui scelgo un testo parlato di Paolo Conte sta nel fatto che questo cantore scrive i versi sempre dopo la musica, dentro la musica. E oggi c’è troppa poesia che non cammina sulla musica, troppa poesia di sole parole.

In particolare, nota, lettore, lettrice, quei due ultimi versi, sublimi - ci vuole molta intelligenza e molto amore per essere sublimi – e pensa che Eftimios continua a voler dare una mano, a te che leggi ed a me che scrivo.

 

(sito-rivista, 25 novembre 2007)

Conte, Hesitation

Fiori di carta - Foscolo, Alla sera

Il fiore-di-carta dedicato ad Eftimios in questo dicembre dimezzato è Alla sera di Ugo Foscolo:

Forse perché della fatal quïete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.


Ho scelto questa poesia prima di tutto perché, come dice l’Intelligenza, “nella vita c’è qualcosa di bello quando le difficoltà non eccedono”. Ed è dolce andarsene persino una sera di primavera, quando le difficoltà eccedono.

Secondo poi, sebbene risuonino fra le sue righe tanti altri testi, di Properzio, Marino, Pindemonte, Orazio, Tasso, Alfieri – per citare i più evidenti - il sonetto è originale, odoroso com’è non di libri pieni di voglia di stupire bensì di venti pieni di voglia di giocare. E' classico, non neoclassico.

 

(sito-rivista, 2 dicembre 2010)

Foscolo, Alla sera

Fiori di carta - Francesco, Cantico delle creature

Questo mese ho scelto per l’antologia della poesia italiana dedicata ad Eftimios il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi.

"Altissimu, onnipotente bon Signore, / Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione. / Ad Te solo, Altissimo, se konfano, / et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature, / spetialmente messor lo frate Sole, / lo qual è iorno, et allumini noi per lui. / Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: / de Te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle: / in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si', mi' Signore, per frate Vento / et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, / per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua. / la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si', mi Signore, per frate Focu, / per lo quale ennallumini la nocte: / ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre Terra, / la quale ne sustenta et governa, / et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.

Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore / et sostengono infrmitate et tribulatione.

Beati quelli ke 'l sosterranno in pace, / ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, / da la quale nullu homo vivente pò skappare: / guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; / beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, / ka la morte secunda no 'l farrà male.

Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate / e serviateli cum grande humilitate."

L'ho scelta perché è una poesia - lode: Eftimios era un essere umano laudatorio. Lo ricordo ogni volta che rileggo questa lode-del-resto-del-mondo in forma di poesia-del-tu, o la ascolto re-citata.

E siccome Gabriele l'ha recitata di fianco al dipinto La Crocifissione di Pietro del Caravaggio, mi è tornato in mente un altro dipinto del Caravaggio, La vocazione di Pietro e Andrea – che ritrae Gesù giovane e imberbe, agli inizi del Seicento, in maniera molto, troppo somigliante a Eftimios verso la fine della vita e del Novecento, con quel suo modo di volgere il capo, di guardare assorto, e di fluttuare le mani:

Francesco, Cantico delle creature
aravaggi.jpg

Fiori di carta - Gezzi, Comandamento

Per questa antologia di fiori-di-carta, della poesia italiana dedicata ad Eftimios - oggi ho scelto la poesia di Massimo Gezzi:

Comandamento

Non perdere di vista nulla: la luce
per un attimo più incerta di un lampione,
le gocce di pioggia che pungono
ripetutamente una pozzanghera, il sorriso
di una donna all’autogrill, mentre parla
al bancone con un uomo sconosciuto –
e il sole delle sei, se sei sveglio nel letto,
il volto mezzo assorto e mezzo teso
di un vecchio che firma un documento
in comune, la testa di un cane
che cade lentamente per il sonno.
Non torna mai niente, i gesti
fanno in tempo a disegnarsi nel chiaro
dell’aria, poi il sole secca il fango,
l’uomo e la donna ritornano
in viaggio, la corrente dei lampioni
si interrompe del tutto.

Prima di tutto perché ci leggo, intrecciati come le strisce di canna e i rami di salice d’un paniere, il dolore della sparizione e la gioia dell’apparizione.

In secondo luogo perché estranea al conformismo artistico, linguistico, tecnico che quasi sempre salta fuori come uno spiritello malvagio appena s'apre un libro di poesia contemporanea. Se lo scrittore non è unico, se il lettore non è unico, se lo scrittore-lettore non è unico, a cosa servono?

 

(sito-rivista, 2 febbraio 2009)

 

*

 

Questo post ha suscitato questi commenti:

 

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Inviato: 4/2/2009 20:12  Aggiornato: 4/2/2009 20:12

 

Giorgio Caproni

Res amissa

Non ne trovo traccia.

......

Venne da me apposta
(di questo sono certo)
per farmene dono.

.......

Non ne trovo più traccia.

.......

Rivedo nell'abbandono
del giorno l'esile faccia
biancoflautata...

La manica
in trina...

La grazia,
così dolce e allemanica
nel porgere...

.......

.......

Un vento
d'urto - un'aria
quasi silicea agghiaccia
ora la stanza...

(È lama
di coltello?

Tormento
oltre il vetro ed il legno
- serrato - dell'imposta?)

.......

.......

Non ne scorgo più segno.
Più traccia.

.......

.......

Chiedo
alla morgana...

Rivedo
esile l'esile faccia
flautoscomparsa...

Schiude
- remota - l'albeggiante bocca,
ma non parla.

(Non può
- niente può - dar risposta.)

.......

.......

Non spero più di trovarla.

.......

L'ho troppo gelosamente
(irrecuperabilmente) riposta.


Caro Pasquale

In tema con la poesia qui pubblicata mi sono ricordato di questa struggente di Caproni.
Qui c’è solo il dolore per la scomparsa e il desiderio frustrato.

Si può ascoltare l’aria “l’ho perduta” da Le nozze di Figaro di Mozart (credo sia sulla radio)

Puoi meglio definire la “unicità” del lettore-scrittore ? Non mi è chiara.

Un abbraccio

Astrea

 

*

 

Inviato: 4/2/2009 20:45

 

Autore: venises


Si, l’aria “l’ho perduta” da Le nozze di Figaro di Mozart, c'è.

Per il testo: Atto Quarto, Scena Prima

 

*

 

Inviato: 5/2/2009 5:48

 

Autore: Pasquale Misuraca

 

@ 'Astrea'

Mi domandi di chiarire (a me stesso ed a te, ed a coloro che ci leggono e ci scrivono) cosa intendo quando scrivo della necessaria unicità dello scrittore, del lettore, dello scrittore-lettore.

Gli scrittori che scrivono per affermarsi, per esprimersi, per comunicare, a me non sembrano necessari. Lo sono invece coloro che scrivono per costruirsi, per costruire: e l'atto costruttivo rende necessariamente unici.

I lettori che leggono per conformarsi, per informarsi, per aggiornarsi, a me non sembrano necessari. Lo sono invece coloro che leggono per formarsi, per formare: e l'atto formativo rende necessariamente unici.

Tutto ciò vale a maggior ragione per questa nuova figura emergente grazie alla Rete, la figura dello scrittore-lettore, che ha due punti di partenza e linee di sviluppo: il lettore può scrivere allo scrittore, lo scrittore può leggere il lettore. E scrivendo-e-leggendo diventano necessariamente unici.

 

*

 

Inviato: 5/2/2009 18:22

 

Autore: ioJulia

 

Grazie a te Fulmini mi sento un pochino unica perchè mi ritrovo nelle tue parole... Non leggo per informarmi o conformarmi vorrei proprio formarmi...
Ciao
Julia

Gezzi, Comandamento

Fiori di carta - Marin, El sol tramonta

L’antologia dei fiori-di-carta, delle poesie italiane che dedico alla memoria di Eftimios, questo mese breve accoglie il breve testo di Biagio Marin:

El sol tramonta

El sol tramonta ogni sera
ma xe eterno el ritorno
e senpre torna el zorno
co’ l’aria più lisiera.

Me invesse finisso
de l’onbra ne l’abisso.

La prima ragione per cui l’ho scelta? Pur essendo una poesia dialettale ha un respiro universale. La selettività lessicale non ostacola anzi promuove l’ampiezza-durata spazio-temporale. La sua semplicità ha il sapore della immensità. Tutto con niente. Eftimios disegnava e dipingeva con ciò che trovava in casa: matite colorate, penne biro, matite, pennarelli, acquarelli, colori a cera, tempere:

 



Secondo poi, Eftimios era consapevole di andare a morire a sedici anni. Ma non lo dava a vedere, sempre felice di ogni aria più lisiera di ogni ultimo zorno.

 

(sito-rivista, 2 febbraio 2010)

Marin, El sol tramonta
disegno-dipinto.jpg

Fiori di carta - Montale, Avevamo studiato

Per questo prato di fiori-di-carta, l’antologia della poesia italiana che vado componendo in memoria di Eftimios, scelgo oggi questa poesia di Eugenio Montale:

Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.

Si trova in ‘Xenía’ I, (Satura, 1971, Mondadori). Ξενία in greco, Xenía nella trascrizione in caratteri latini, era nel migliore dei mondi possibili il dono d'addio che l’ospitante dava all’ospitato per mostrargli che era stato onorato di accoglierlo nella propria casa. Montale scrisse gli Xenía pensando a Drusilla Tanzi, sua moglie morta giovane, io te ne faccio dono, lettrice, lettore, pensando ad Eftimios.

C’è una seconda ragione di questa scelta decembrina. E sta appunto nel fatto che questo dono posso farlo a te, e non più ad Eftimios – come dice la poesia. Che molte cose ci dice, è vero, molteplice com’è sempre la vera poesia, ma una sopra tutte desidero qui mettere in evidenza, e precisamente che i vivi sono ombre sopravvissute che vorrebbero dialogare con le proprie ombre trapassate, i propri cari che non sono più, ma non ci riescono.

Ho desiderato tanto continuare a dialogare con Eftimios dopo morto, ma, come dice il poeta della “vita priva di illusioni”, posso solo parlare di lui con te. Lui non c’è più. Resta soltanto nei nostri ricordi. Ma non è più lui. È un fantasma.

Una di queste notti di novembre ho sognato Eftimios. Era ragazzino, stava davanti a me, su un divano o una sedia, tra noi c’era un tavolo forse altri erano intorno a noi, certo la scena era in bianco e nero, e precisamente in mille toni di grigio. Era davanti a me, Eftimios, e si muoveva a piccoli scatti, anzi era come mosso da invisibili fili. Non si muoveva nel sogno come lui naturalmente si muoveva. Non era lui, ho pensato svegliandomi dall’incubo, era un fantasma.

Però.

I greci antichi pensavano che l’amore fosse qualcosa di più grande di noi che ci muove. Come fantasmi. Come ombre. E la musica cos’è? E questa ragazzina è un fantasma? È un’ombra? La vedi come si muove? È mossa da qualcosa più grande di lei? E chi è questo vecchio che all’inizio si siede tra gli altri, e da 1’-e-16” a 1’-e-32” inquadrato dall’altro sorride estasiato ad occhi chiusi, ed alla fine abbraccia la ragazzina la bacia sulla guancia e fa alzare tutti in piedi?

 

*

 

Pubbicato sul sito-rivista il 2 dicembre 2009, questo post ha suscitato due commenti. Li riporto di seguito:

 

Inviato: 2/12/2009 14:11

Pasquale,
grazie di questi tuoi bellissimi, commoventi, strazianti doni: la poesia, la musica, il tuo testo.
Nell'insieme, mettono in luce le questioni essenziali della vita umana: il rapporto fra la vita e la morte, i rapporti fra gli uomini, il rapporto fra il tempo e l'eternità, il rapporto fra la realtà sfuggente delle cose e la realtà trascendente (ma presente) della bellezza, la verità, l'amore.
Forse, magari, le ombre, i fantasmi, sono le cose e accadimenti di ogni giorno - come pensava Platone -, e la realtà vera ed eterna è quella raggiunta dalle persone e le opere che siano riusciti a vivere nella dimensione eterna dello spirito - come pensa Vito Mancuso.
Luis Razeto

 

Inviato: 4/12/2009 19:09

E non solo Mancuso, Luis.
Un saluto.
Ciao Pasquale, un salutone.

Fort

Montale, Avevamo studiato

Fiori di carta - Palazzeschi, Ara Mara Amara

Per questa antologia di fiori-di-carta oggi ho scelto una poesia di Aldo Palazzeschi:

Ara Mara Amara

In fondo alla china,
fra gli alti cipressi,
è un piccolo prato.
Si stanno in quell’ombra
tre vecchie
giocando coi dadi.
Non alzan la testa un istante,
non cambian di posto un sol giorno.
Sull’erba in ginocchio
si stanno in quell’erba giocando.

Perché l’ho scelta? Per la ragione generale che è una poesia di parole e una poesia di cose.

Secondo poi perché non si può spiegare completamente: come un fiore-di-carta. “La poesia è più facile farla che riconoscerla. Fino a un certo basso livello, la si può giudicare in base ai precetti e al mestiere. Ma la buona, la somma, la divina, è al di sopra delle regole e della ragione. Chiunque ne discerna la bellezza con sguardo fermo e tranquillo, non la vede più di quanto veda lo splendore di un lampo. Essa non seduce il nostro giudizio; lo rapisce e lo devasta.” (Michel de Montaigne, Saggi)

 

(sito-rivista, 2 maggio 2008)

Palazzeschi, Ara Mara Amara

Fiori di carta - Pascoli, Novembre

 

Continuo a parlarvi, a parlarti di Eftimios, oltre il racconto-testimonianza della sua vita breve che ho pubblicato fin qui sul sito-rivista.

Vorrei ora costellarlo intorno, Eftimios - nel suo cielo, e seminarci sopra - alla sua terra, un po’ di fiori, ma non fiori recisi, agonizzanti, e nemmeno fiori piantine, moriture, bensì fiori di carta, fiori di parole, fiori-poesie insomma, sempreverdi. Lo farò con i fiori della poesia italiana di tutti i tempi. Un poeta, una poesia.

Comincio con Novembre di Giovanni Pascoli, una poesia che amavamo, che amiamo, una poesia perfetta. E comincio con la perfezione perché troppi ancora pensano che ‘la perfezione non è di questo mondo’. Amico mio peccatore, amica mia peccatrice, se hai occhi per vedere e orecchie per sentire, leggi e senti questa poesia, e convertiti.

Questo in generale. In particolare, nota che la prima parola di questa poesia suona “gèmmea” con l’accento sulla prima e. Viene da "gemma", da “gemmare”. Memorabile il fatto che Pascoli parli d’autunno e scriva di primavera, no?

Novembre

Gèmmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini e orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.

 

(sito-rivista, 4 novembre 2007)

Pascoli, Novembre

Fiori di carta - Pasolini, Supplica a mia madre

Per questa antologia di fiori-di-carta che vuole raccogliere il meglio della poesia italiana - e dedicarlo ad Eftimios - oggi ho scelto questa poesia di Pier Paolo Pasolini:

Supplica a mia madre

E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

L’ho scelta prima di tutto perché mostra quanto il poeta – quando è poeta – è scorticato come il Colleoni del Verrocchio, spudorato come la Danae del Correggio, delicato come la balaustra del chiostro di San Carlino alle Quattro Fontane del Borromini.

Secondo poi perché c’è questa rima che capovolge misericordiosamente i ruoli: è il figlio che recita, sussurra, una filastrocca, una cantilena, alla madre.

 

(sito-rivista, 2 agosto 2008)

Pasolini, Supplica a mia madre

Fiori di carta - Penna, Nuotatore

Per questa antologia della poesia italiana dedicata ad Eftimios - oggi ho scelto la poesia di Sandro Penna

 

Nuotatore:

Dormiva...?
Poi si tolse e si stirò.
Guardò con occhi lenti l’acqua. Un guizzo
il suo corpo.
Così lasciò la terra.

Prima di tutto perché risveglia l’antica lirica greca testimoniando un addio. In secondo luogo... lo dico con una fotografia:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pasquale Misuraca, Un vecchio davanti al mare - Golfo di Palermo, 21 giugno 2008

 

(sito-rivista, 2 ottobre 2008)

 

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Il post ha suscitato sul sito-rivista i commenti che seguono:

 

*

 

Inviato: 2/10/2008 17:10

Autore: AlfaZita

-Ti è piaciuta la poesia di Sandro Penna? Mi hai detto e guardavi finestra e tenda.
- Commovente l’accostamento e lo stacco, ti dissi chinata e raccoglievo la luce nell’acqua.

Ti scrivo per guardarti perché non ho osato.

 

*

 

Inviato: 3/10/2008 10:31

Cara amica
anche i tuoi commenti (sempre) suonano e hanno musica.

 

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Inviato: 3/10/2008 22:54

Autore: lorenzolevrini

Ottima foto!

 

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Inviato: 5/10/2008 11:41

Quanto mi manca la poesia del mare di Palermo e di tutta la Sicilia.

Grazie per la visita al mio blog

Salvatore Sblando
larosainpiu.ilcannocchiale.it

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Inviato: 8/10/2008 20:40

Autore: ioJulia

Bellissimo accostamento...

Grazie AlfaZita

Julia

pesca.jpg
Penna, Nuotatore

Fiori di carta - Petrarca, Erano i capei d'oro

Per due ragioni propongo in questa rubrica (che è diventata, finito di pubblicare il racconto a puntate Vita breve di Eftimios, una sorta di antologia della poesia italiana a Eftimios dedicata) Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, il sonetto 90 del Canzoniere di Francesco Petrarca:

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ‘n mille dolci nodi gli avolgea,
e ‘l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi ch’or son sì scarsi;

e ‘l viso di pietosi color’ farsi,
non so se vero o falso, mi parea;
i’ che l’ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?

Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma, et le parole
sonavan altro che pur voce humana:

uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’ vidi; et se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana.


Ecco ora la ‘traduzione in prosa’ del sonetto – per rendere sufficientemente comprensibile il testo ai non specialisti della lingua petrarchesca:

I biondi capelli erano sparsi al vento il quale in mille dolci nodi li avvolgeva, e la vaga luce oltre misura ardeva di quei begli occhi che ora hanno perduto lo splendore di un tempo;

e mi pareva che il viso, non so se in realtà o per mia illusione, si colorasse di pietà (Chiari); io che avea l’animo disposto e apparecchiato ad accendersi di amore (Leopardi), qual meraviglia se di sùbito arsi?

Il suo incedere non era quello di un essere mortale, ma di un angelo (Chiari), e le parole avevano altro suono che quello di una semplice voce umana (Leopardi):

uno spirito celeste, un sole in carne e ossa (Contini) fu quel che io vidi; e se ora non fosse più quale era allora, una ferita non si rimargina anche se l’arco da cui è partita la freccia che l’ha provocata non è più tesa (Contini).


E veniamo alle mie ragioni. In primo luogo l’ho scelto perché è pieno di pressione e nello stesso tempo colmo di grazia (grace under pressure – grazia sotto pressione / grazia nonostante la pressione, si dice memorabilmente in inglese).

Pieno di pressione, cioè di cultura: vi si intravede la frequentazione e lo studio, da parte di Petrarca, delle poesie di Virgilio, Ovidio, Dante, Boccaccio – per dire dei maggiori. E colmo di grazia nonostante la pressione. Cosa rara. Di solito chi studia studia studia e poi cerca di scrivere... ri-produce quello che ha studiato, realizza una pallida copia dei grandi modelli letterari. Invece in questo sonetto Petrarca (non gli succede sempre, sia chiaro) traduce tutti gli Altri in tutto Io, rielabora tutto il passato in qualcosa che non c’era ancora e non ci sarà più. Ebbene, Eftimios era così: perennemente creativo.

In secondo luogo ho scelto questo sonetto per il primo suo verso. Rileggiamolo parola per parola, cogliendo l'allucinatoria progressione della visione (i capelli > biondi > al vento) incorniciata dallo strazio iniziale dell'imperfetto (Erano) e dalla gioia seminale dell'addio (sparsi):

Erano

i capei

d’oro

a l’aura

sparsi

 

(sito-rivista, 2 ottobre 2009)

 

*

 

Il post ha suscitato questi commenti:

 

Inviato: 2/10/2009 8:14

Autore: bovary

uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’ vidi; et se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana.
questo è il verso che mi commuove di più...

 

meravigliosamente vero.

 

Inviato: 2/10/2009 19:48

Autore: Pasquale Misuraca

...a l’aura... Petrarca scrive ‘l’aura’ e pensa a Laura (naturalmente), ma non soltanto, pensa anche altro, Francesco, come tutti i grandi poeti intrecciando tutti i fili in un nodo irresolubile:

Nella 'traduzione in prosa' ho parafrasato ‘aura’ con ‘vento’ per necessità di brevità. Occorre considerare ancora che aura vuol dire anche, meno genericamente, brezza, venticello leggero, soave, e generalmente aria, aria non ferma bensì mossa, trepidante, e particolarmente fiato, soffio, e in senso lato atmosfera, fisica, morale, sentimentale. Vogliamo poi dimenticare che il nome proprio Aura deriva forse da ‘aurum’ - oro in latino? ...i capei d’oro... E l’aura dell’oro è il lume che n’esce – Tommaseo.

Petrarca, Erano i capei d'oro

Fiori di carta - Porta, Parole sole

Antonio Porta

 

Parole sole

2.

nave
vena
vane
van
ave
eva
neva
va

 

(sito-rivista, 2 agosto 2009)

Porta, Parole sole

Fiori di carta - Pozzi, Don Chisciotte

Per questa antologia di fiori-di-carta, della poesia italiana dedicata ad Eftimios - oggi ho scelto la poesia di Antonia Pozzi:
 

Don Chisciotte

I

Sulla città
silenzi improvvisi.

Varchi
con un sorriso indefinibile
i confini:
sai le spine di tutte le siepi.

E vai,
oltre i fiati caldi degli uomini,
il sonno dopo gli amori,
l'affanno e la prigionia.

Su la petraia che è azzurra
come le corolle del lino,
liberata
canti correndo:

ma chiudi gli occhi
se in fondo al cielo
le ali bianche dei mulini
si dilacerano
al vento.

{21 febbraio 1935}

 

II

Fioche
dalla terra brulla
ti giungono
grida atterrite:

mentre seguita
su l'ala immensa
a rotare
la tua crocefissione.

{22 febbraio 1935}




L'ho scelta prima di tutto perché l’associazione Gesù di Nazareth – Don Chisciotte è straziante: “Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: ‘E’ pazzo’.” (Vangelo secondo Marco, 3,21)

In secondo luogo per quel verso: “sai le spine di tutte le siepi” – tutte le spine di tutte le siepi hanno straziato Eftimios, ho pensato leggendolo e l'ho associato, prima, al "bambino in cima ad una colonna":

“Nella piazza principale della nostra città c’è la statua di un bambino in cima ad una colonna. Bianca la colonna, bianco il bambino dal profilo antico, l’indice poggiato orizzontalmente alle labbra, lo sguardo volto all’infinito. Nessuno di noi ricorda da quanto tempo ci siano la colonna e la statua, ma tutti conosciamo la leggenda che c’erano da prima e la città venne dopo. C’era dunque un bambino molto bello che un giorno camminava tra le colline e il mare, fu preso da un grande pensiero e si fermò accanto ad un roveto. Le spine gli ferirono i piedi, che cominciarono a sanguinare. Il bambino più pensava e più imbiancava ma non si fece distrarre dal dolore. I pescatori e i contadini lo videro da lontano, un lampo fermo al centro di un lago che si muoveva, si avvicinarono e non smettevano di guardarlo tanto era bello. Finché una notte, spaventati dal fatto che non si corrompeva, scavarono una buca per seppellirlo. Ma vi trovarono dentro una colonna bianca. Allora la innalzarono sul posto, posero sopra il bambino, segnarono il perimetro del suo sangue e dentro costruirono la città. La colonna è di marmo, ma di che materia sia la statua non è certo, nessuno è mai voluto salire fin lassù. Gli abitanti delle città vicine dicono sia d’alabastro o di quarzo, ma quando la luce del sole e della luna la colpiscono in un certo modo noi leggiamo sotto l’epidermide le vene i muscoli le ossa il cuore i polmoni il cervello del nostro bambino immutabilmente concentrato.”

e poi a questo ritratto a matita che gli ho fatto il 23 giugno del 1979 - aveva appena fatto il bagno, i suoi capelli erano ancora arruffati, e dimenticandosi di stare in posa si era messo a pensare.

 

 

 

(sito-rivista, 2 gennaio 2009)

Pozzi, Don Chisciotte
eftimios.jpg

Fiori di carta - Quasimodo, Ed è subito sera

Quasimodo, Ed è subito sera

Fiori di carta - Rodari, L'omino della gru

Per questa antologia che vado componendo come un prato selvatico di fiori-poesie, come un tavolo simpatico di fiori-di-carta, ecco oggi la filastrocca L'omino della gru di Gianni Rodari, giornalista per grandi e poeta per bambini:

L’omino della gru

Filastrocca di sotto in su
per l’omino della gru.

Sotto terra va il minatore,
dov’è buio a tutte l’ore;

lo spazzino va nel tombino,
sulla terra sta il contadino,

in cima ai pali l’elettricista
gode già una bella vista,

il muratore va sui tetti
e vede tutti piccoletti...

ma piú in alto, lassù lassù,
c’è l’omino della gru:

cielo a sinistra, cielo a destra,
e non gli gira mai la testa.


Perché l’ho scelta? Per la ragione generale che le Filastrocche in cielo e in terra di Rodari sono fiorite (verso la metà del Secolo Breve) su commissione dei suoi bambini lettori. Amo le poesie su commissione, e le scrivo volentieri (ditelo ai vostri bambini). AlfaZita ed io l’abbiamo letta e riletta ad Eftimios, questa poesia, quando era bambino.

Secondo poi perché (ricordo che) una volta Rodari disse più o meno: “Ho imparato dai bambini che non ci sono solo livelli diversi, ma modi diversi di comprensione.” Ebbene, noi coautori del sito-rivista ci siamo messi in testa di scrivere non soltanto per i poeti laureati ma anche per gli adolescenti che stanno finendo il liceo. Ecco perché.

 

(sito-rivista, 2 aprile 2008)

Rodari, L'omino della gru

Fiori di carta - Scapin, Il granchio, l'oro, lei

Per questa antologia di fiori-di-carta, questo giardino della poesia italiana dedicato ad Eftimios - oggi ho scelto la poesia di Nuria Scapin:

 

Il granchio, l’oro, lei.

Marmo il mare
equoreo, vasto tempio
dorato.

Rubescendo il granchio
di sbilenco, di vedetta
in difesa dell’orma
sedotta dal mare.

Eccesso rosso concentrato
con le chele protese
inzaccherate di pepita.

Mentre s’allontana il marinaio
sul mare di marmo
scivolando nell’oro

teso nel suo essere umano
rifulgendo di sudore, penso
al granchio già lambito.

Penso all’orma c’hai lasciato
sacerdotessa indaffarata
a preparare il temporale

calmo il mare, marmo
levigato, vasta angoscia
equorea.

L’antica seta delle
Onde hai trascurato
per addensare il temporale.

Non c’è un guizzo un’increspatura
né riverbero un po’ frale
solo l’ora d’oro d’un ipocrita
decoro.

Morta è anche la fiaba, trascurata,
le Ondine l’oro non cercano
pazze d’armonia, ciascuna suicidata
d’oro per la scia
marmificata.

Il granchio anch’esso prende commiato

dacchè signora vaga
l’hai dimenticato
e l’oblio del flutto non paga
e presta nulla a un invitato.

Ma la quiete non favorisce
quesito né richiesta
dunque taccio dentro a un tempio
frasi avanti un temporale.

Le mani contratte sulla sabbia bruciata
troppo sale nella gola per parlare la tua sete
(poich’ogni dubbio chiami empio)
ciottolerei esasperata
e mentre poca resta all’orma attesa di sparire

spero mi dica cosa vale
tutto questo oro e quel che vieta,
sacerdotessa indaffarata,
quando non posso bere la tua seta.



*

Prima di tutto per il suo incipit, che intreccia il cinema moderno alla letteratura antica. (Faccio notare lo zigzagare dei piani visivi: primo piano, totale, piano a figura intera, dettaglio, campo lungo, primo piano... e la rotondità delle parole.)

In secondo luogo perché (in questa poesia tutta intera) questo connubio non è disperato, come in Non è un paese per vecchi, o manierato, come in tanta nuova poesia nata vecchia, e allude ad un mondo inestricabilmente vecchio e giovane, antico e moderno, passato e presente.

 

(sito-rivista, 2 marzo 2009)

Scapin, Il granchio, l'oro, lei

Fiori di carta - Scialoja, Un tordo vive in ozio

 

Un tordo vive in ozio
nell’orto di mio zio:
appena fa uno zirlo
mio zio corre a zittirlo.

Toti Scialoja


Continuo a parlarvi, a parlarti di Eftimios, oltre la sua vita breve, pubblicando e commentando fiori intorno a lui, ma non fiori recisi, agonizzanti, e nemmeno fiori piantine, moriture, bensì fiori di carta, fiori di parole sempreverdi, fiori-poesie. Lo faccio con i fiori della poesia italiana di tutti i tempi. Un poeta, una poesia.

Continuo, dopo 'Novembre' di Giovanni Pascoli, con Un tordo vive in ozio di Toti Scialoja, una poesia che amavamo e amiamo, ricordavamo e ricordiamo a memoria, una poesia rimata. Lo faccio con una poesia rimata perché troppi oggi pensano che la poesia moderna debba essere, per essere ‘moderna’, ‘libera’ nel senso di ‘non rimata’, perché la rima sarebbe un impaccio, una mania, una superstizione. No, no. Gramsci ricordava nel suo linguaggio sarcasticamente appassionato un Tizio che si autodefiniva nel biglietto da visita ‘Contemporaneo’.

Questo in generale. In particolare nota, lettore, lettrice, che questa poesia è un racconto pieno di surrealtà e realtà. Surrealtà del poeta in rapporto alla realtà del mondo.

Toti Scialoja è stato pittore, poeta, scenografo, docente, critico d’arte: un pentatleta. L’ho incontrato nell’autunno del 1997 e gli ho proposto di realizzare con lui, per lui, un ritratto-autoritratto, un documentario in soggettiva della sua vita d’artista raccontata da lui medesimo e figurata dall’insieme variegato delle sue opere – sul modello de ‘Le ceneri di Pasolini’ che avevo realizzato qualche anno prima. Mi ascoltò attentamente guardandomi da sotto in su – era simpaticamente basso come un folletto – e mi rispose sorridendo: “Sì, non ora però, l’artrite mi angustia troppo, in primavera starò meglio”. Infatti, nella primavera seguente, nel marzo del 1998, morì.

 

(sito-rivista, 11 novembre 2007)

Scialoja, Un tordo vive in ozio

Fiori di carta - Tasso, Vissi: e la prima etate

Per l’antologia della poesia italiana dedicata ad Eftimios, per questo mese di marzo dell’anno dimezzato ho scelto un sonetto di Torquato Tasso:

Vissi: e la prima etate Amore e Speme
mi facean via più bella e più fiorita;
or la speranza manca, anzi la vita
che di lei si nudría, s’estingue insieme.

Né quel desio che si nasconde e teme
può dar conforto a la virtù smarrita;
e toccherei di morte a me gradita,
se non posso d’amor, le mete estreme.

O Morte, o posa in ogni stato umano,
secca pianta son io, che fronda a’ venti
più non dispiega, e pur m’irrigo in vano.

Deh, vien, Morte soave, a’ miei lamenti
vieni, o pietosa, e con pietosa mano
copri questi occhi e queste membra algenti.

L’ho scelto in primo luogo per la sua musicalità, una caratteristica propria di Eftimios nella sua vita intera, dal principio alla fine, dalle attività creative alle minuzie quotidiane.
[‘Musica’ vuol dire ‘arte delle Muse’, e per ‘musicalità’ intendo l’espressione ad arte dei sentimenti e dei pensieri mediante suoni (e gesti, e segni) modulati.]

In secondo luogo, l’ho scelto per per radicale opposizione. Eftimios si è lamentato mai.

 

(sito-rivista, 1 marzo 2010)

Tasso, Vissi: e la prima etate

Fiori di carta - Trilussa, Lo scialletto

Per il prato della poesia italiana di tutti i tempi che vado componendo in ricordo di Eftimios - il ragazzo dagli occhi lucenti - ho scelto un fiore-poesia di Trilussa. Un poeta che non è un grande poeta, lo so, e allora perché l’ho scelto? Per la ragione generale che per fare un prato servono fiori di diverse dimensioni, grandi e medie e piccole, come nella ideazione-composizione-esecuzione di una sinfonia. Osservate, ammira un prato fiorito e vedrete, vedrai ciò di cui parlo.

Secondo poi c’è una ragione particolare: racconta una forma d’amore, l’amore coniugale, che Eftimios non ha fatto in tempo e non ha avuto modo di conoscere se non indirettamente, o attraverso opere, e operine come questa.


Lo scialletto

Cor venticello che scartoccia l'arberi
entra una foja in cammera da letto.
È l'inverno che ariva e, come ar solito,
quanno passa de qua, lascia un bijetto.
Jole, infatti, me dice: - Stammatina
me vojo mette quarche cosa addosso;
nun hai sentito ch'aria frizzantina? -
E cava fôri lo scialletto rosso,
che sta riposto fra la naftalina.

- M'hai conosciuto proprio co' 'sto scialle:
te ricordi? - me chiede: e, mentre parla,
se l'intorcina stretto su le spalle -
S'è conservato sempre d'un colore:
nun c'è nemmeno l'ombra d'una tarla!
Bisognerebbe ritrovà un sistema,
pe' conservà così pure l'amore... -
E Jole ride, fa l'indiferente:
ma se sente la voce che je trema.

 

(sito-rivista, 2 marzo 2008)

Trilussa, Lo scialletto

Fiori di carta - Ungaretti, Fratelli

Il fiore che dura più a lungo tra i fiori della terra è il fiore di parole, il fiore-poesia, perciò oggi pianto nel cielo di Eftimios

Fratelli

Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità

fratelli

La ragione generale per cui prediligo questa fra altre poesie di Giuseppe Ungaretti è che l’ha riscritta migliorandola (questa è la redazione finale, del 1943) – operazione difficile, e pericolosa: come rientrare in una antica tempesta intellettuale-emotiva-creativa e uscirne vittoriosi?

Secondo poi, in particolare nota, lettore, lettrice, che parla del sentimento della fraternità, e noi stiamo provando a fare insieme un blog-rivista fondato sulla fraternità. Non – badate, bada bene – sulla fraternità della famiglia biologica, ma del gruppo amicale. Anche in questo Gesù di Nazareth ha aperto la strada.

 

(sito-rivista, 2 dicembre 2007)

Ungaretti, Fratelli

Fiori di carta - Variazioni su Scialoja

C’è una poesia di Toti Scialoja che recita così:

Vive a Zara, anzi vi langue,
la zanzara senza zeta,
non si azzarda a succhiar sangue
ma nient’altro la disseta.

Sta nel libro scritto-e-disegnato Una vespa. Che spavento (Einaudi 1975), che abbiamo letto - Alexandra, io, Eftimios, Nefeli, Sofia - in casa, in viaggio, prima e dopo - fino a scompaginarlo.

Dal principio m'è parso d'intravedere una potenzialità incompiuta, una surrealtà mancata, in questa bella e giocosa poesia, alla quale vorrei finalmente affiancare la seguente variazione:

Vive a Zara, anzi vi langue,
la zanzara senza zeta,
non si assarda a succhiar sangue
ma nient’altro la disseta.

Eftimios l’avrebbe forse certo condivisa. Lo immagino lo vedo sorridere leggermente, appena stringendo gli occhi – ancora più lucenti - e la bocca – ancora più albicocca.

 

*

 

Questo post ha suscitato un leggero sciame di commenti:

 

Inviato: 2/7/2009 16:47

Autore: venises

E se magari piuttosto:
non s'assarda a succhiar sangue (?)

 

 

Inviato: 2/7/2009 17:20

Autore: Pasquale Misuraca

@ Venises
Sì! Bella variazione. Ti faccio notare che io ho "riscritto" una poesia cambiando due consonanti, tu soltanto apostrofando una vocale!
Esistono anche altre possibilitá di riscrittura...
il gioco è avviato. Grazie a te.
(Ne approfitto per ringraziarti anche della rivelazione britteniana di ieri: la prima parte del primo pezzo - nella esecuzione completa di video, che a me pare migliore di quella che chiamerò del puro sonoro - l'abbiamo inclusa, Luis ed io, nel 'libro-internet' che stiamo scrivendo.)

 

Inviato: 2/7/2009 19:24

Autore: venises

Devo confessare che Britten (che conosco poco) non è uno dei miei preferiti.
L'ho inserito per far ascoltare qualcosa della musica del novecento.

 

Inviato: 2/7/2009 23:24

Autore: Pasquale Misuraca

@ Venises
Non entusiasma nel complesso neppure me, la musica di Britten - per quel poco che ho sentito e risentito - ma quei primi 26 secondi di canto corale (del brano completo di video)... mi hanno grandemente emozionato.
Si sono rimaterializzate d'un colpo - intorno quelle note e quelle strofe - le voci dei bambini dell'asilo che penetrano di tanto in tanto nella villa de "La grande abbuffata" di Marco Ferreri, e tornando ancora indietro di bambine che chiamano il nonno, infine - nella nebbia della memoria che cede - un girotondo di margherite-colletti bianchi ed enormi setosi fiocchi blu.

 

Inviato: 4/7/2009 0:17

E io propongo questa variazione:
Vive a Zara, anzi vi langue,
la sansara senza zeta,
non si azzarda a succhiar sangue
ma nient’altro la disseta.
Luis Razeto

 

Inviato: 5/7/2009 14:57

Un'altra variazione?
Vive a Sara, anzi vi langue,
la sansara sensa seta,
non si assarda a succhiar sangue
ma nient’altro la disseta.
Vittorio

Variazioni su Scialoja

Fiori di carta - Zanzotto, Femene che le lava

Per questo mazzo di fiori-di-carta dedicati ad Eftimios - oggi ho scelto questa poesia di Andrea Zanzotto:

Femene che le lava

Tute le femene le va do’ al lavador:
no l’è ‘n mistier ‘sto qua
ma l’è ‘n destin, cofà l’amor
o ‘n fiol, o la só ora co la vien.
La va dó l’ora e la lava
co l’aqua che la fila via,
l’aqua che anca de ‘sta vita
e non sol de ‘ste poche nostre robe
la ne fa pulizhia.

(Tutte le donne si recano al lavatoio: non è un lavoro questo, è un destino, come l’amore o un figlio, o come l’ora nostra quando viene. Va giú l’ora e lava con l’acqua che fila via, l’acqua che anche di questa vita e non solo di questi nostri pochi panni fa pulizia.)

L’ho scelta prima di tutto perché parla d’un mondo antichissimo con un linguaggio modernissimo, poesia a un tempo tradizionale e sperimentale, dove i giochi di parole e i giochi d’acqua, gli accenti e le donne, le rime e le vite, i canti popolari e i cicli naturali si specchiano e s'inseguono.

Secondo poi perché tratta della vita e della morte cantilenando, sovrappensiero.

 

(sito-rivista, 2 settembre 2008)

Zanzotto, Femene che le lava
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